Pierre Amédée de La Sertonnais, maître notaire della Repubblica Francese, figlio, nipote e senz’altro, prima o poi, padre e (a dio piacendo) avolo a sua volta di una larga schiatta di maîtres notaires, sollevò per aria il pedalino spaiato servendosi di un’estremità della sua stilografica Dupont. «Perdonate: la buonanima soffriva di qualche mutilazione?» E in quello allungò lo sguardo sopra l’orizzonte degli occhialetti, in attesa di ulteriori indizi di una zoppia che la stanza, va a sapere come, gli avrebbe dovuto rivelare.
«Nossignore!» Rispose Walter Meyer, intento a rovistare in cerca del pedalino che completava la coppia. «Aveva anzi ottime gambe da saltatore.» La chiosa quanto mai infelice gli strappò uno Scheiße! a fior di labbra e causò a Elise, la domestica, un capogiro: l’ennesimo.
Pierre Amédée de La Sertonnais risolse di glissare e dettò autoritario (a se stesso, non avendo voluto immischiare segretari): «Sia messo a inventario il singolo pedalino.» Quindi riassunse spiccio: «Alla presenza del maître notaire Pierre Amédée de La Sertonnais eccetera si certifica eccetera beni di proprietà del defunto monsieur François Reichelt eccetera sarto per signora eccetera eccetera come da testamento olografo eccetera eccetera eccetera.» Ne aveva abbastanza di passare in rassegna sgabelli, catini, stoffe, macchine Singer. Pestava per fare ritorno allo studio, in avenue Mac-Mahon. Ovviamente non prima di una capatina in rue d’Artois, faccenda per la quale era preferibile, a quell’ora, servirsi dell’Omnibus senza dare il destro alle malelingue: sarebbe sceso alle Galeries Lafayette, confondendosi tra la folla, e di lì poi a piedi fino al portone di Annette, il cappello calcato sulla fronte, il bavero alzato a prova di sguardi indiscreti.
«Sei proprio tu, mio piccolo Pierrot?» Quando Annette se lo ritrovò dinnanzi, infagottato come un postiglione, stentò a riconoscerlo. «Hai freddo mio piccolo Pierrot? Gradisci forse del Calvados?» Ma il maître notaire Pierre Amédée de La Sertonnais (punto primo) a quell’ora non beveva mai e (punto secondo) non si considerava abbastanza normanno per il Calvados. Annette da parte sua era troppo svampita e troppo alsaziana per sottilizzare (possibile che non si trovi più, non intendo un parigino, ma quanto meno un francese a Parigi, pensava il maître notaire). La giovane intonò, si fa per dire, un’aria d’operetta che odorava di anice e subito alleggerì il maître notaire del superfluo, a iniziare dalla busta con l’inventario, fino a lasciare l’uomo in camicia e reggicalze. Il maître notaire evitò di fissarsi in uno dei tanti specchi che facevano, a suo dire, art nouveau e si illuse così di mantenere, per tutto il tempo che richiedeva quell’incombenza, un piglio, sempre a suo dire, da terza repubblica.
Un’ora dopo Annette già accoglieva un nuovo ospite: «Sei proprio tu, mio piccolo Scaramouche?»
L’impresario Oscar Philippe La Mouche, che mezza pinta di sangue normanno nelle vene capace pure che l’avesse, si servì del Calvados non tanto per via della rigida serata di febbraio, ma piuttosto per digerire l’idea che quel pazzo di un sarto boemo avesse deciso di sfracellarsi senza restituirgli prima i duemila franchi e, soprattutto, che anche a volersi intrufolare nel suo atelier non ci avrebbe cavato nemmeno di che pagare gli scassinatori. Quella lista di paccottiglia, sfilata di tasca con tanto di atto notarile, gli fruttava giusto una cocotte meglio portata al borseggio che come mezzosoprano e che nondimeno ora era costretto a scritturare.
Fissando il proprio riflesso in camicia e reggicalze, ripensò al mattino ghiacciato allo Champ-de-Mars, qualche giorno prima. «Che aspetti? Salta!» Gridava la gente spazientita. Come sarebbe salta? Si era parlato di un manichino. La Mouche aveva avuto appena il tempo di storcere un sopracciglio che già i suoi duemila franchi più interessi precipitavano a peso morto da sessanta metri buoni di Tour Eiffel. «Fate largo, sono un dottore.» Diagnosi: morte sul colpo. Con buona pace di tutte le promesse sul premio Lalance e i relativi diecimila franchi per il brevetto di paracadute, al netto di ulteriori fandonie che quel boemo figlio di un cane gli aveva rifilato (possibile che a Parigi non esistano più gentiluomini capaci di onorare i propri impegni, andava deplorando l’impresario barra strozzino barra proxénète).
Il dottor Jean-Baptiste Cotignon, grazie a un gesto atletico che stupì lui per primo, aveva raggiunto il punto dell’impatto con così largo anticipo sul resto dei curiosi da rendere il suo «Fate largo!» del tutto pleonastico. Altrettanto gratuita parve la fretta di trasportare via il corpo ormai cadavere e l’intero armamentario paracadutistico, per cui il dottore aveva senza indugio messo a disposizione la propria vettura. Nessuno ebbe comunque di che obiettare, neppure un attonito e ritardatario Walter Meyer il quale, non appena ragguagliato sulle condizioni dell’amico, fu colto da coccolone. Lo si dovette schiaffeggiare a lungo per farlo riavere: dottori nei paraggi non ce n’era più e si intervenne come meglio si poté.
Il dottor Cotignon, in virtù del suo paziente più illustre, era per così dire di casa alla torre. «Il vostro medico è qui per ascoltarvi, Gustave.» Aveva azzardato qualche settimana prima. Poi, subito pentitosi: «Monsieur Eiffel, in fede: non fatevi scrupoli.»
Gustave Eiffel, prossimo agli ottanta, autore di prodigi ingegneristici, presidente di società esclusive, ufficiale della Legion d’Onore, si schermì dietro un sorriso da fanciullo: «È un sogno che ricorre, come un presentimento.» Sognava la torre perdere i suoi rivetti, uno a uno. «Sapete quanti rivetti sono serviti a questa torre, dottore? Due milioni e mezzo.» Lo diceva grave, l’ingegner Eiffel. E si era fatto serio pure il dottor Cotignon, fissando il vuoto fuori dalla finestra del bureau di Gustave Eiffel, all’ultimo piano della torre.
I rivetti, nel sogno, cadevano come neve, senza rumore. Nessuno li notava. Finché crescevano d’intensità: erano gocce di pioggia, docile, e poi grandine, via via più fitta, furibonda; si trasformavano in proiettili: due milioni e cinquecentomila proiettili micidiali, sparati in tutte le direzioni da una mitragliatrice alta trecento metri che si disfaceva pezzo a pezzo sommergendo di ferraglia la Francia e l’Europa intere.
Il dottor Cotignon si diede un tono: «C’è questo libro di un medico viennese che promette di decifrare i sogni.»
«E cosa dice?»
«Non conosco il tedesco e mi guardo dagli austriaci.» Il che era una mezza verità. A ogni modo il dottor Cotignon si lanciò in una lettura storico-filosofica: la guerra necessaria, la patria che chiama, il dovere della scienza, la storia che procede sicura dalla barbarie alla ragione.
Il pragmatismo dell’ingegner Eiffel ne uscì senza un graffio: «Non sono sicuro che gli eventi si dispongano in fila indiana come la intendete voi, dottore.» E comunque non spiegava il sogno.
«Avete una grande responsabilità monsieur Eiffel.» Provò a chiarire il dottore, le cui diagnosi risultavano spesso fumose. «I vostri studi di aerodinamica daranno al Paese più gloria, se possibile, delle vostre opere di ingegneria.» E con la mano grassoccia indicava i rotoli di progetti che l’ingegnere stipava nel suo bureau. «Quanto sognate è solo il riflesso delle vostre preoccupazioni.»
L’ingegnere sbuffò nonchalant: «Abbozzi, speculazioni. E ora, se mi volete scusare.»
Che quel locale tra le nuvole si dotasse di servizi igienici funzionanti strabiliava quasi più del panorama che se ne godeva. Quanto poi alla regolarità dell’ingegnere nel farne uso, lasciando incustoditi i disegni suoi e dei suoi collaboratori, il dottor Cotignon ci poteva tarare sopra il proprio Beaucourt da taschino. Un più pregiato Patek Philippe, d’altro canto, non avrebbe richiesto così frequente manutenzione: il dottor Cotignon se ne era convinto salendo la scala a chiocciola che immetteva nel bureau, quel mattino, e sorprendendo l’ingegner Eiffel, brusco, arrotolare fogli grandi quanto l’intero tavolo. Quali progetti segreti giustificavano tanta premura? Quanto potevano valere per l’intelligence teutonica? Come uscire dalla Tour Eiffel nascondendo un plico alto quanto un uomo e senza dare nell’occhio?
Ebbe la risposta di ritorno dalla campagna di Joinville. «Lo avete visto anche voi?» Ancora prima di passare il ponte sulla Marna, il dottor Cotignon con la coda dell’occhio aveva scorto rovinare giù dal tetto di un fienile quello che a una prima sommaria analisi era parso essere un enorme uccello nero. Il cocchiere, interpellato, si strinse nelle spalle. Che diavoleria era mai quella?
«Una macchina fotografica.»
«Ma no! Intendo quella.»
Il giovane fotografo che aveva risposto sbuffò nonchalant.
Qualche metro più avanti, nel cortile polveroso, un cumulo di paglia si agitava sotto il peso di una specie di catafalco. Ne spuntarono un paio di baffoni all’ungherese applicati a una testolina la quale a sua volta era attaccata a un ometto che il dottor Cotignon aiutò a riacquistare la stazione eretta.
«Buon dio, state bene? Avete bisogno di un dottore? Perché si dà il caso che io lo sia. Che combinate? Cos’è quest’affare?»
Di fronte a quel fuoco di fila, l’ometto frastornato non trovò di meglio da ribattere che esibire il biglietto da visita: François Reichelt; sarto per signora; rue Gaillon numero otto; secondo arrondissement; Parigi.
A poche settimane da quell’evento il dottor Cotignon bussò alla porta dell’atelier di François Reichelt: «Amate la vostra patria monsieur?» François Reichelt, boemo tedesco, ceco di natali, naturalizzato francese portò la mano al cuore senza esitare, fissando rapito la bandiera che immaginava sventolare dinnanzi a sé, quale che fosse quella che il dottore intendeva.
«Se rivelerete quanto vi sto per dire vi aspetta la corte marziale.»
François Reichelt aveva l’abitudine di misurare persone e eventi in tagli di stoffa e calcolarne a quel modo perdite e utili. Stimò il rischio della corte marziale assai più remoto dell’ampliamento delle Galeries Lafayette con annessa ulteriore emorragia di clienti.
Si limitò a annuire risoluto, non credendo essere ancora arrivato il momento di menzionare compensi e rimborsi spese.
«Benissimo! Ora: a che punto siete con il vostro paracadute?»
Un andirivieni di garzoni e fantesche, sempre nuovi, a scadenze regolari prese a dare l’assillo alla porta dell’atelier. La richiesta, declinata in vario modo, era ogni volta la medesima: il dottore chiedeva a che punto si fosse con il suo ordine. François Reichelt faceva cenno di attendere.
«Dev’essere bello largo questo dottore.» Ipotizzava l’amico e collaboratore Walter Meyer mettendo fede alle tempistiche per quella confezione.
François Reichelt crollava il capo: negli ultimi tempi crepava più gente di caduta libera che di vaiolo. A lui si chiedeva di lanciarsi dal primo piano della Tour Eiffel appeso a qualche metro quadro di tendaggio.
«Di cosa vi preoccupate? Sono dottore e intimo dell’ingegner Eiffel, conosco il corpo umano e l’aerodinamica come le mie tasche. Se vi dico che ne uscirete senza un graffio dovete fidarvi.»
François Reichelt non si fidava proprio per niente. Documenti segreti, guardie della torre al soldo del nemico, salvezza della patria: si giocava l’osso del collo sopra una faccenda che, vedeva bene, era imbastita con lo spago. Non sapeva come c’era finito dentro e non sapeva come tirarsene fuori.
Il giovane Rémy Barlatier, fotografo ufficiale di quegli esperimenti paracadustici, nonché cineoperatore saltuario per il Pathé-Journal, occasionale direttore della fotografia per gli studi George Méliès, impiegato a vario titolo e alla bisogna all’obitorio cittadino del Quai de l’Archevêché, già apprendista barbiere, giramondo, tombeur de femmes e quant’altro, di fronte all’ennesimo ruzzolone dal fienile di Joinville valutò che il principale problema risiedesse nel peso. «Incomincerei rasando quei baffi.» Consigliò in un accesso di risa. «Lo dico per te, mio buon François: ne vedo fin troppi di baffi stecchiti giù al Quai de l’Archevêché.»
François Reichelt non era tipo da sprecare parole, specie da quando di mezzo si era messa la corte marziale. Ma di fronte alla macabra immagine di una fila di baffuti morts inconnus non riuscì a trattenersi: «Ami la tua patria Rémy?»
Il giovane fotografo sbuffò tranchant.
«E se ci aggiungessi mille franchi?»
Al numero otto del Boulevard des Italiens, gli spettatori del Théâtre Robert-Houdin si azzittiscono. Il pianista asseconda con maestria gli umori del pubblico: il mormorare smarrito degli uomini con la mano sinistra, le grida soffocate delle donne con la destra. Il direttore del teatro George Méliès fatica a trattenere la propria ilarità. È tanto che non ride che quasi gli fa male, ma non può farne a meno. Il macchinista alla manovella gli rivolge uno sguardo di biasimo: il numero del Pathé-Journal appena proiettato è tutt’altro che ridicolo. Nella pellicola un uomo si è lanciato dalla balaustra del primo piano della Tour Eiffel precipitando sullo Champ-de-Mars come un mucchio di stracci. Alcuni uomini trasportano via il suo cadavere e l’inquadratura si chiude con l’impronta profonda dell’impatto nel terreno gelato.
George Méliès è costretto a guadagnare le quinte con il fazzoletto sul volto. Il regista e illusionista Méliès, dopo tanti anni, ancora non si capacita di come alla gente sfugga sempre la cosa più banale, quella che sta proprio sotto al loro naso. Non conosce tutti i dettagli Méliès, ma preferisce così: sa bene che una volta scoperto il trucco non è più possibile godersi l’incanto. L’emozione è tale che non può evitare di condividerla. Lascia il Robert-Houdin e esce in strada dalla porta degli artisti. Appena rincasa, raggiunge il capezzale della moglie Eugénie. È così giovane e così malata Eugénie. «Ricordi, tesoro, quel Barlatier?» Attacca Méliès. «Quel bel giovane che lavorava per noi?» È così stanca Eugénie. «Ti va, tesoro mio, di ascoltare una storia?» Eugénie chiude gli occhi, annuisce e sorride.
Non lontano dalla Nuova Caledonia, i giovani nativi di quelle isole del Pacifico si sottopongono a un rituale di iniziazione molto particolare. Rémy Barlatier, in ogni suo viaggio, appena a tiro di marinai reduci di quelle latitudini, chiedeva lumi a riguardo. Dalle loro testimonianze, meditava, presto o tardi ci avrebbe tirato fuori un film.
Lunedì cinque febbraio millenovecentododici, la prima pagina del Petit Parisien titola sulla pubblica esibizione di paracadutismo tenutasi il giorno innanzi e conclusasi in tragedia. Monsieur Gassion, fra i custodi intervistati, dichiara che François Reichelt si era presentato quella domenica quattro febbraio, di buon mattino, nei locali dell’amministrazione della Tour Eiffel. Con lui due accompagnatori, uno poco più che adolescente.
Quando ha qualche pensiero, George Méliès, fatica a dormire. All’alba, per distendere i nervi, esce a passeggiare. Più pensieri lo assillano, più allunga il suo itinerario. Dal Boulevard des Italiens, attraversando la Senna dopo Place de la Concorde, doppiando la Tour Eiffel e riguadagnando la rive droit dal Pont d’Iéna, per poi rientrare da un affluente a casaccio degli Champs-Élysées, è una sgambata di più di due ore. George Méliès, sabato tre febbraio, alle sette e trenta del mattino, per liberare la mente è addirittura salito sulla terrazza della Tour Eiffel e si chiede che diavoleria è mai quella.
«Una cinepresa.»
«Grazie tante! Ma intendevo quella.»
Il giovane cineoperatore che aveva risposto riconosce il vecchio datore di lavoro. Prima arrossisce, poi sbianca.
«Non vorrete mica buttarvi con quel coso da quassù?» Si preoccupa George Méliès, che di ruzzoloni e ossa rotte ne sa più di quanto vorrebbe.
Ci si leva i cappelli, si stringono mani e si fanno le presentazioni.
«Certo che no, monsieur.» Spiega Walter Meyer, che non ha idea di chi sia George Méliès. «Qui si gira un film.»
George Méliès del sottile confine tra finzione e verità ci ha fatto un mestiere. Fissa inquisitorio Reichelt e lo strano marchingegno che indossa, quindi Barlatier che si fa scudo di una cigolante Pathé trentacinque millimetri. «E quale sarà il titolo?» Insiste malizioso.
«Escamotage.» Risponde Barlatier. E si morde le labbra.
George Méliès se ne compiace, spende parole di incoraggiamento, indugia mentre François Reichelt sale sulla balaustra, gli raccomanda attenzione, si scusa per la fretta e saluta nel preciso momento in cui Barlatier ha fermato la macchina da presa e già traffica con nodi, funi e materiale di scena vario. Si stringono mani, si fanno cenni di saluto. Non Reichelt: lui non muove un muscolo.
Il giorno appresso, domenica quattro febbraio, ore otto del mattino, la passeggiata di George Méliès si inceppa davanti alla piccola folla di curiosi sullo Champ-de-Mars. Il cadavere di François Reichelt, gli viene riferito, è già diretto all’Hôpital Laennec e, tutto a un tratto, di quella linea sottile tra finzione e verità George Méliès stenta a distinguere i contorni.
Seduto a terra c’è Walter Meyer: ha l’espressione smarrita e il volto paonazzo per la troppa sollecitudine dei suoi soccorritori. «Cos’è accaduto?» Ma Meyer scuote la testa, non ci si raccapezza. Non era sulla torre con Reichelt né sapeva della sua intenzione di saltare.
George Méliès non conosce tutti i dettagli. Non sa chi fosse il ragazzo poco più che adolescente che verrà menzionato l’indomani sul Petit Parisien, ma crede che due braccia forti per aiutare a trasportare un grosso carico, diciamo settanta chili avvolti di tendaggi, fino al primo piano della Tour Eiffel le si possa trovare a pochi franchi e senza dare troppe spiegazioni. Sa anche che all’obitorio del Quai de l’Archevêché di morts inconnus dal volto irsuto ne arrivano fin troppi e spesso nessuno li reclama. Sa, George Méliès, che è facile fare apparire e sparire oggetti e persone con una macchina da presa e lo sa perché quel trucco l’ha inventato lui. Sa anche (e questo è ciò che più lo diverte) che, fra l’inquadratura sulla balaustra della Tour Eiffel e la successiva con lo schianto al suolo, il montaggio ha saltato ventiquattro ore. Lo sa perché del giovane aiutante, menzionato dal custode monsieur Gassion, nel filmato non c’è traccia. Il Pathé-Journal sulla balaustra con François Reichelt mostra invece lui, George Méliès, in bella vista e sotto il naso di tutti, durante la sua passeggiata del sabato mattina.
Non conosce tutti i dettagli George Méliès, né vuole conoscerne di più. Non sa di preciso dove si trovi la Nuova Caledonia, ma Rémy Barlatier, un tempo, lo aveva messo a parte di un rito di passaggio per cui giovani selvaggi si lanciavano nel vuoto affidandosi a liane legate alle caviglie. Non sa, Méliès, che un sarto boemo, per togliersi dall’impaccio di una corte marziale e nell’illusione di scongiurare una guerra, stava massaggiandosi il labbro appena rasato sul ponte di un transatlantico. Né sa di documenti trafugati nel cavalletto di una macchina da presa con la complicità di un cineoperatore avventuriero, ora diretto alla volta del Pacifico. Méliès non sa che il dottor Jean-Baptiste Cotignon aveva dovuto impegnare anche il proprio Beaucourt da taschino, credendo di finanziare un prototipo di paracadute che non sarebbe mai stato realizzato, con la speranza di arricchirsi passando al nemico progetti segreti che le correnti oceaniche stavano invece disfacendo a nord di Capo Verde. Non sa che Walter Meyer, ancora a lutto e disorientato, riceverà un vaglia anonimo della U.S. Postal per la somma di cinquecento dollari, recante la criptica causale «pedalino spaiato: a parziale risarcimento». Infine non sa, Méliès, che l’anziano Gustave Eiffel dovrà abbandonare l’idea di migliorare gli scarichi igienici del suo bureau avendone smarrito, va a capire come, tutti i progetti.
Eugénie Méliès sta intanto cedendo al sonno. Lei sa che suo marito del confine tra finzione e verità non ha mai ben saputo cosa farsene. Ma per una volta vuole sperare che le cose stiano proprio così come lui le ha raccontate.